I social sono il fast food della mente (e ci stanno rincoglionendo)

Siamo tutti convinti di usare i social in modo consapevole.

La verità? Sono loro che usano noi.

Che tu li stia usando per lavoro o semplicemente per restare connesso con il mondo, sappi una cosa: ne sei completamente succube.

Pure io lo sono.

Sia come creatore di contenuti, sia come consumatore.

Il punto è che oggi le dinamiche dei social sono troppo radicate per potersela cavare con un semplice “basta avere autocontrollo”.

Non basta più silenziare, disinstallare o prendersi una pausa.

Serve un ripensamento profondo.

Serve un cambio nella gestione delle piattaforme.

Perché se non succede, tra qualche anno apriremo Instagram o TikTok trovandoci davanti un banner con scritto:

“Attenzione: nuoce gravemente alla salute.”

E no, non sto esagerando.

È davvero di questo che stiamo parlando.

Ed è anche il motivo che mi ha spinto a scrivere questo articolo.

Nelle prossime righe ti spiegherò perché le interazioni ci stanno rendendo dipendenti, come l’algoritmo sta manipolando il nostro modo di comunicare, e perché oggi più che mai servono scelte consapevoli.

Se anche tu hai l’impressione che i social siano diventati un rumore di fondo che ti toglie più di quanto ti dà, qui troverai un modo per fare un passo indietro, guardare il problema dall’alto e capire meglio la questione.

Ma prima, lascia che mi presenti.

Sono Marco Alberti, consulente di comunicazione, e da oltre 5 anni aiuto aziende e liberi professionisti a comunicare meglio la propria identità online.

Sono uno che sui social ci lavora, e che ci riflette parecchio.

Lascia dunque che ti dica un’opinione scomoda:

i social, così come li usiamo oggi, fanno più male che bene.

Parliamoci chiaro.

I social non sono più strumenti di anni fa pensati per connettere le persone.

Sono distributori automatici di contenuto spazzatura.

E prima te ne rendi conto, meglio è.

Scrolli, scrolli, scrolli.

Ti sembra di fare qualcosa.

Ma non stai facendo nulla.

Stai solo buttando attenzione dentro una slot machine che non ti restituisce niente, se non un’altra notifica e un’altra briciola di dopamina.

Il fast food contenutistico

I contenuti che consumiamo ogni giorno hanno la stessa qualità di un cheeseburger da 1 euro.

Ti riempiono? Sì.

Ti nutrono? No.

Video di 15 secondi.

Reel motivazionali riciclati.

Tweet che sembrano saggi ma in realtà non dicono nulla.

È tutto progettato per tenerti lì, non per farti crescere.

E sai qual’è la cosa più assurda?

Che iniziamo a pensare che questa sia la normalità.

Che l’unico modo per “comunicare” sia essere virali, veloci, accattivanti.

Ma non profondi.

Ed è esattamente così che questi contenuti nel migliore dei casi finiscono nel dimenticatoio….

… Mentre nel peggiore dei casi ti fanno entrare nel circolo vizioso dei trend, pensando di aver raggiunto una fama “positiva”, che in realtà non fa altro che renderti l’ennesima attrazione di un enorme circo nel quale siamo tutti spettatori.

Ma come siamo finiti per credere a questa illusione?

Il motivo è semplice ma non banale.

Abbiamo smesso di dare importanza alle metriche qualitative, seguendo solamente quelle quantitative.

Numeri ovunque

“Non esiste pubblicità buona o cattiva, esiste solo pubblicità”.

Quante volte hai sentito ripetere questa frase?

Io, che in questo settore ci lavoro, fin troppe volte.

E vuoi sapere la tragica fattualità delle cose?

Questa frase, ahimè, è tanto vera quanto pericolosa.

Perché sì, non esiste pubblicità buona o cattiva ai fini commerciali.

Se c’è una cosa che ho imparato in questi anni di lavoro è questa:

Qualsiasi sia la tua posizione, troverai sempre qualcuno disposto a sostenerti.

Sembra strano, vero?

Eppure è così.

Tanti o pochi che siano, troverai sempre un pubblico disposto a sostenere le tue idee.

Peccato però che non tutte le opinioni contano allo stesso modo.

Ti interessa maggiormente il supporto di uno sconosciuto o quello di tua madre, tuo padre, un amico, una fidanzata?

Ma soprattutto, ti interessa più il supporto di 100 sconosciuti o la tua stabilità mentale che deriva dall'agire secondo coscienza?

Oggi leggiamo i numeri, ma non sappiamo più interpretarli.

In questo caso, uno non vale uno.

I social ci hanno infilato in un gioco che misura tutto, tranne ciò che conta davvero.

Pubblichiamo contenuti solo per vedere aumentare il numero di like, visualizzazioni e follower, senza mai chiederci chi si nasconda realmente dietro queste metriche.

Non devi arrivare a più persone possibili, ma alle persone giuste.

Oggi non vincono i contenuti migliori.

Vincono i contenuti che performano meglio.

Che sono due cose completamente diverse.

E questo crea un problema gigantesco per i creator: non iniziamo a pubblicare ciò che vogliamo dire, ma ciò che funziona meglio per l’algoritmo.

E lentamente ci perdiamo.

Smarriamo il nostro intento.

La nostra voce.

La nostra identità.

Viviamo in un'epoca in cui diamo più importanza ai numeri che alla nostra autorealizzazione.

Abbiamo reso la fama un valore da perseguire e non la conseguenza diretta (e quasi spiacevole) della creatività.

Di conseguenza, la risposta si traduce in una presenza costante sui social e in una continua ricerca di trend.

Perché non conta più quello che dici, ma quanto ti metti in mostra.

L’illusione della presenza costante e del trend

Condividiamo tutto: dove ci troviamo, cosa mangiamo, chi vediamo.

Ma siamo sempre più assenti.

Sempre più disconnessi da noi stessi.

L’illusione è questa: pensiamo di essere “presenti” solo perché siamo online.

Ma essere presenti non significa pubblicare una story ogni sei ore.

Significa esserci davvero, con intenzione, preferibilmente senza uno smartphone in mano.

E invece trascorriamo il nostro tempo più per essere visti che per vivere davvero.

Questo, in termini di performance, ripaga.

La regola è semplice: più sei presente, più instauri una relazione duratura con le persone.

Si tratta però di una relazione indiretta perché tu non conosci il tuo pubblico, mentre il tuo pubblico si illude di conoscere te.

La regola funziona.

In effetti, più sei presente e più il tuo pubblico inizia a conoscerti meglio (anche se non totalmente, nonostante lo creda possibile).

Anche questa regola va però interpretata.

C’è chi seguendo questa regola sceglie di incamminarsi verso la strada della presenza costante e priva di contenuto, finalizzata all'inseguimento dei trend e basata sulla logica della quantità.

In questo caso, i risultati saranno rapidi ed immediati.

Raggiungerai la tanto agognata fama, ma durante il cammino perderai te stesso.

L’alternativa consiste nel creare contenuti più approfonditi e di maggiore qualità, che richiedono più tempo ma offrono anche un valore superiore per chi ti segue.

Qui i risultati non saranno così immediati.

Devi educare il pubblico ai tuoi contenuti e non intrattenerlo rendendo la tua vita una serie tv.

Una volta superato lo scoglio, però, sarai riuscito a mostrarti per quello che sei veramente.

Come facciamo però ad incentivare quest’ultimo percorso?

Seppur sia impossibile pensare di eliminare completamente la via del trend per l’inseguimento della fama, sono convinto che potremmo disincentivare questo processo togliendo agli algoritmi il potere di rendere un post virale o meno, rendendo il social più simile ad un motore di ricerca.

Perché seguendo l’algoritmo finiamo per fare tutti la gara a chi la spara più grossa, essendo questo l’unico modo per emergere.

L’estremizzazione è la nuova normalità

Se vuoi essere ascoltato, devi urlare.

Devi estremizzare, semplificare, polarizzare.

Prendere una posizione forte anche se magari non la pensi proprio così.

Perché le sfumature non funzionano in un mondo che ha bisogno di scandalo per mantenere gli utenti incollati allo smartphone.

E così ogni dibattito diventa una guerra.

Ogni idea deve essere “shockante”.

Ogni post una ricerca dell’eccesso.

Per cosa?

Per un pugno di like e una notorietà che prima o poi ti chiederà il prezzo da pagare.

Il gossip, la pornografia e il true crime sono esempi plateali di come ciò che funziona è ciò che viene estremizzato.

Ma come rischiamo di cadere in questa trappola?

Il vero motivo nasce dal fatto che ora non siamo più in grado di dare il giusto contesto alle cose.

Dai ad ogni cosa il giusto contesto

Sia chiaro, essere riconosciuti all’interno di una piccola cerchia ristretta di persone non è il problema.

Il problema emerge quando da persona riconosciuta in una nicchia specifica diventa una celebrità assoluta.

Ma soprattutto, quando il contesto diventa poco chiaro.

Per capirci: quante volte hai detto o fatto qualcosa che, fuori dal momento in cui è successo, sarebbe potuto sembrare sbagliato, esagerato, persino assurdo?

Magari hai confidato un pensiero fragile a un amico. Magari hai alzato la voce in un momento di rabbia. Magari hai scritto qualcosa di istintivo, pensando che nessuno l’avrebbe letto davvero.

Nel tua intimità, queste cose hanno un significato.

Sono interpretate alla luce della tua storia, della tua voce, del tuo stato d’animo.

Ma prova a estrapolarle.

A toglierle da quel contesto.

A pubblicarle davanti a migliaia di sconosciuti.

Che succede?

Succede che perdono senso.

Succede che diventano fraintendibili.

Succede che sei giudicato per una frase, non per un pensiero.

Per un frammento, non per un insieme concettuale.

Ecco il punto: i social stanno diventando talk show di ultima generazione.

Luoghi in cui la tua intimità viene data in pasto al pubblico.

Dove non conta più la verità, ma quanto “funziona” quel momento fuori contesto.

Ed è lì che perdiamo il vero valore delle cose.

Le star dei social, a cui tutti oggi ambiscono di diventare, hanno dato in pasto la loro vita privata e la loro intimità con lo scopo di intrattenere milioni di persone con le proprie sofferenze.

E questo è stato possibile in gran parte grazie alla necessità di ricevere in cambio una manciata di interazioni.

Le interazioni ci stanno degradando

Ti è mai capitato, dopo aver pubblicato un post o una storia, di continuare a vedere quanti like avesse raggiunto fino a renderti conto che hai perso mezz’ora del tuo tempo?

Posso quasi intravedere l’espressione stanca e rassegnata sul tuo volto mentre rispondi mentalmente a questa domanda.

Non preoccuparti, è capitato pure a me.

Le interazioni sono state pensate proprio per tenerti in quello stato di tensione ed adrenalina.

Like, commenti, cuoricini, reaction: piccole droghe che, anche a minimi dosaggi, ci rendono sempre più dipendenti.

Il problema non è solo l’interazione in sé, ma il potere simbolico che le abbiamo attribuito.

Un like oggi è molto più di un segnale di apprezzamento: è diventato una validazione personale.

Un indice del nostro valore percepito.

Un metro emotivo per misurare la nostra autostima.

Robert Cialdini, con il concetto di riprova sociale, ci ha spiegato bene questo meccanismo: più una cosa viene approvata da altri, più tende ad acquisire valore agli occhi di chi osserva.

Il punto è che questa regola ha smesso di essere uno strumento cognitivo sano, ed è diventata una gabbia.

Perché la riprova sociale non condiziona solo l’opinione che abbiamo degli altri.

Condiziona anche, e soprattutto, l’idea che abbiamo di noi stessi.

E così succede che:

Se hai pochi follower, ti senti poco interessante.

Se un post non riceve abbastanza like, pensi che ciò che dici non abbia valore.

Se nessuno condivide la tua riflessione, ti convinci che sia banale o inutile.

Tutto questo accade prima ancora di porti la domanda più importante:

"È davvero ciò che volevo dire?"

Per paura di non ricevere approvazione, iniziamo a rincorrere ciò che funziona.

Copiamo formati, toni, temi.

Prendiamo scorciatoie.

Pubblicare diventa un'ansia da prestazione.

Non ci chiediamo più se ha senso, ma se "piacerà".

E questo è il vero punto di rottura: passiamo dalla comunicazione all’esibizione.

La creatività si appiattisce, la voce si omologa, l’identità si perde.

È una lenta erosione del pensiero critico e della nostra autenticità.

Ci stiamo degradando, un like alla volta.

E la cosa più tragica è che spesso non ce ne accorgiamo nemmeno, perché la gratificazione istantanea ci dà l’illusione che tutto stia andando bene.

Ma non stiamo esprimendo davvero chi siamo.

Stiamo semplicemente giocando a un gioco che non abbiamo scelto, ma che temiamo di abbandonare per paura di sparire.

La soluzione?

Non è facile, e non è immediata.

Ma inizia da qui: smettere di usare le interazioni come bussola del valore.

Inizia a creare e condividere con un’altra intenzione: quella di dire qualcosa che senti davvero, anche se potrebbe non piacere.

Di essere chi sei, anche se non sarà virale.

Perché, in fondo, la qualità di una voce non si misura dal rumore che fa, ma dalla verità che riesce a trasmettere.

Il miglior social? Quello senza interazioni e consigli di ricerca

Immagina un social dove non ci sono like.

Nessun commento.

Nessuna metrica.

Solo contenuto.

Suona strano, lo so.

Ma pensaci: se togli questi elementi, resta solo ciò che conta davvero.

I social al giorno d’oggi sono più pensati a performare che a mettersi a disposizione dei propri utenti.

E questi due concetti non vanno necessariamente nella stessa direzione.

Proviamo ora ad immaginare una condizione diversa.

Una condizione in cui chi crea lo fa per dire qualcosa in modo autentico.

Chi consuma, invece, lo fa per cercare attivamente qualcosa.

E il rumore cala.

Moriranno i contenuti insensati? Assolutamente no

Resteranno quelli più presenti? Assolutamente sì

La tendenza umana a evitare tutto ciò che richiede impegno e fatica (per un intrinseco principio di autoconservazione) ci sarà sempre, anche quando questo risulta essere dannoso.

L’informazione consapevole richiede sforzi che molti non sono disposti a compiere.

Ma un conto è assecondare questa tendenza, tutt'altro è cercare di contrastarla.

E quello che vedremo ora, secondo me, rappresenta un buon modo per farlo.

Come usare i social in modo utile e sano

Siccome voglio che l’articolo sia anche pratico e non solo teorico, vi presento la mia umile proposta da professionista del settore per migliorare le piattaforme.

Perché i social non sono nati per essere nostri nemici, ma gradualmente lo stanno diventando (anzi, probabilmente lo sono già diventati).

Per questo motivo vanno ripensati da cima a fondo.

  1. Togliamo le interazioni: I like ci fanno creare per ricercare l'approvazione altrui e non per un nostro intrinseco bisogno di esprimerci. Considerando che nella maggior parte dei casi i contenuti virali non sono nemmeno memorabili (vengono visti ma non ricordati, apprezzati ma non realmente sentiti) è meglio progettare un sistema che non renda le persone dipendenti dalla ricerca di approvazione.

  2. Basta con i consigliati: ci rinchiudono nella nostra bolla. Non ci fanno scoprire nuove prospettive, ci mantengono nella nostra confort zone, spesso anche assecondando i nostri vizi. La scoperta dovrebbe partire da una ricerca attiva, non da un algoritmo che ti dà solo ciò che già conosci o ti restituisce ciò di cui vorresti sbarazzarti ma fatichi a farlo. È come quando vuoi metterti a dieta, ma tua mamma continua a tenere la casa piena di dolci…

  3. I social dovrebbero diventare più simili a Google: un motore di ricerca basato sulla comunicazione visiva. Questo dovrebbe essere il social media ideale, in cui il valore aggiunto è la possibilità di contattare direttamente il gestore del profilo (strumento utile per arricchire realmente la propria rete di relazioni)

  4. La home dovrebbe mostrare SOLO chi segui. Punto. L’explore? Solo per ricerche attive. Nessun push, nessuna pressione algoritmica. Vuoi trovare qualcosa? Cercala.

E la pubblicità?

Non dico di uccidere la monetizzazione (anche perché, diciamolo, ci lavoro pure io con le ads).

Ma deve esserci una scelta.

Vuoi un’esperienza pulita, senza interruzioni? Paga un abbonamento.

Vuoi la versione gratuita? Accetti le pubblicità.

Ma non devono essere ovunque.

(Ne parleremo meglio in un altro articolo, perché qui si apre un bel capitolo.)

Riprendiamoci la nostra mente

I social non sono nati per essere cattivi, ma lo stanno diventando molto velocemente.

Questo in parte è dato dalla nostra incapacità ad usarli correttamente…

…E in parte perché sono progettati per essere utilizzati in tal modo.

Il punto è chiaro: o cambiamo questo sistema, o l'unica soluzione sarà abbandonarlo completamente.

Una scelta radicale ma necessaria.

Nel frattempo, se qualcosa di tutto questo ti ha risuonato, scrivimi.

Non con un commento impulsivo ma con una mail ragionata.

Puoi farlo al seguente indirizzo: info@marcoalberti.eu.

Anche (e soprattutto) se non d’accordo con quello che ho scritto.

Sono sempre aperto a confrontarmi con idee alternative per arricchire il mio pensiero.

Se invece ciò che ho scritto ti ha trovato concorde, prova a seguire questi consigli (anche se non sarà così facile).

  1. Usa i social solo come mezzo di espressione.

  2. Smetti di scrollare a caso.

  3. Inizia a cercare con intenzione.

  4. Pubblica quando hai qualcosa da dire, non solo per farti vedere.

E magari, per una volta, spegni tutto e fatti una bella passeggiata.

With all my love,

Marco

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Il problema dell’identità e del posizionamento

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Perché tutti dovrebbero comunicare (sì, anche tu)